Peppino Marotto, poeta (libero contributo dei Kenze Neke).
Quando muore un poeta, una porzione di sapere muore con lui.
E’ una regola che vale senza limiti geografici o temporali, è una norma che
và da sé.
In Sardegna questa regola ha però un valore doppio, vuoi per la mancanza di
eroi, se non occasionali, che popolano la nostra storia antica e recente, vuoi
per l’assoluta e secolare contrapposizione che ci ha visto disprezzare ciò che
proviene dal nostro seno materno.
Come spiegare quindi, se non come l’inspiegabile, l’uccisione con dei colpi
alle spalle di un poeta e di un poeta anziano, in un luogo che diventa un non
luogo?
Quel non luogo è un paese che potrebbe essere un qualunque nostro paese, di un
qualunque nostro poeta e di un qualunque suo abitante, per giunta anziano, che
dovrebbe essere tutelato, protetto come cosa rara, libro vivente di
transumanza-conoscenza da tramandare, come la nostra storia identitaria.
Un tempo sa balentia prevedeva delle regole ferree che non potevano essere
alterate, un codice d’onore che non significa retaggio di leggi non scritte di
un passato che non si è saputo adeguare ai tempi, ma bensì delle consuetudini
comportamentali che ci rendevano un popolo unico: il rispetto dei bambini, delle
donne, degli anziani, forse dei poeti.
Non abbiamo più regole, e l’omicidio di Peppino Marotto, poeta e comunista, è
qui davanti a noi a dimostrarlo, perse nel tempo di una modernità che impone il
cambiamento senza ricambio, elementi effimeri di un ingranaggio che ci usa come
pedine e ci vomita risucchiati di ogni sentimento, compassione, personalità.
Marotto era probabilmente quello che un poeta dovrebbe essere, schierato
apertamente ad essere voce di chi non ha voce; spezzare quella voce significa
mettere a tacere chi ancora sente il bisogno di opporsi, significa ancora una
volta che si sta compiendo il tentativo di metterci il bavaglio.
Non abbiamo più voce se non per tacere questo momento e cercare di comprendere
dove siamo finiti, continuando a resistere e sperando che non sia troppo tardi
per salvare il salvabile.
Kenze Neke
Unu poeta
Est grae su kelu
s’est cuatu pro
non deper videre
su lamentu de
un omine ki morit
l
enas sar voches
naran ki est mortu
su poeta ki cantait
sos poveros e
sos pastores poveros
s’artziat arta sa oke
nostra nd’est s’atitu
pro aere pertu
unu cumpanzu
e morjat peri su kelu
si no at su corazu
de nos gollire
unu poeta
un poeta
È pesante il cielo
si è nascosto per
non dover guardare
il lamento di
un uomo
che muore
piano le voci
dicono che è morto
il poeta che cantava
dei poveri
e dei pastori poveri
si alza la voce
nostra è una canzone
di morte
per avere perso
un compagno
e muoia pure il cielo
se non ha il coraggio
di proteggere
un poeta.
Kenze Neke