Bolzaneto, la morte della dignità. Storie dal massacro della democrazia

Fonte:http://www.repubblica.it/2008/07/sezioni/cronaca/g8-genova-4/libro-calandri/libro-calandri.html

 

GENOVAL’85 per cento delle 252 vittime di Bolzaneto non
andava neppure fermato. E chissà se i ragazzi torturati – che ci sia
stata tortura lo dice la recente sentenza – sono stati ‘solo’ 252:
dagli interrogatori e dalle interviste ne spuntano altri, finora
sconosciuti. Arriva oggi in libreria "Bolzaneto. La mattanza della
democrazia" (DeriveApprodi, pp. 256, euro 15), primo libro "vero" sul
massacro nella caserma di Genova-Bolzaneto durante il G8 del 2001. Vero
perché parte dalla sentenza del luglio scorso. Vero perché l’autore,
Massimo Calandri di Repubblica, ha raccolto atti in gran parte inediti
e ha aggiunto col suo lavoro, ricostruzioni, interviste e racconti. Una
documentatissima prefazione di Giuseppe D’Avanzo rende perfettamente il
clima e spiega i retroscena. Un lungo filo rosso per capire come mai,
oggi, in Italia, possano esistere torturatori e torturati. (r. n.)



Ecco, di seguito, un estratto del secondo capitolo.

La torta al cioccolato

Quando mi hanno presa per un braccio. E’ in quel momento che tutto ha
avuto inizio. Una mano mi ha afferrata forte, poco sotto la spalla. In
realtà non ho sentito vero dolore. Cioè, niente che poi abbia lasciato
lividi, o graffi, un qualche arrossamento della pelle. Nessun segno,
davvero. Però una sensazione precisa e strana. Qualcosa di buio. Un
male profondo. Come l’alito d’una bestia crudele. Come una scossa
elettrica. Come una puntura velenosa. E’ cominciato esattamente allora,
mi ricordo bene. Non un minuto prima. Non quando mi hanno legato le
mani dietro la schiena. Neppure quando la poliziotta mi ha colpita con
un pugno. Mi si è avvicinata e credevo sorridesse, ho pensato:
finalmente, una donna. Lei capirà, mi porterà via. Invece le orecchie
hanno cominciato a ronzare. Il sapore ferroso del sangue in bocca. Non
è stato quando mi hanno portata via, in quell’auto senza sedili. La
testa che sbatteva da una curva all’altra. L’aria che mancava. Ma non è
stato allora. Posso giurarlo. Perché il male è arrivato dopo. Dopo,
quando la macchina è arrivata a Bolzaneto. Dopo, quando mi hanno presa
per un braccio.

Valérie Vie è stata la prima a violare la Zona Rossa. La prima ad
essere arrestata. La prima a venire accompagnata nel carcere
provvisorio genovese. Caserma Nino Bixio, Bolzaneto. Era in cucina,
stava preparando una torta al cioccolato per i figli, guardava la
televisione. Ha visto quelle grate assurde. E tre giorni più tardi,
alle 15.30 di venerdì 20 luglio 2001, una mano l’afferra forte.

Qualcuno che mi prende, che mi trascina fuori dall’auto della polizia.
Siamo arrivati, è chiaro. Attraverso i vetri ho intravisto un piazzale
e quella che mi sembrava una piccola folla. Ero confusa, spaventata. Si
è aperta la portiera. Quella sulla destra. E mi hanno afferrato. Era
una splendida giornata di sole, il riverbero mi ha costretto a chiudere
gli occhi. Non so quando sia durato, quanto dura di solito? Un paio di
secondi. Uno, due. Buio. Luce. Intorno a me vedo solo uomini. Immobili.
Come una folla dipinta in una piazza dipinta. In borghese, in divisa.
Intorno alla macchina, sui gradini di un edificio poco lontano.
Potrebbero essere cinquanta, o forse mille. Vorrei contarli ma non ci
riesco. Mi guardano tutti, nessuno apre bocca. Non arrivano segnali e
allora provo io a pensare, ad essere razionale. E quello che mi viene
in mente è paradossale. Perché razionalmente vedo dei manichini. Quei
guerrieri di terracotta cinesi, è chiaro di cosa sto parlando? Non
umani. Senz’anima. E’ una situazione assurda, mi dico. E la cosa più
assurda è proprio quel silenzio. E’ un film, è un palcoscenico, è una
presa in giro? Perché quegli uomini mi guardano così? Scarto subito
l’idea di essere diventata sorda.

Nelle orecchie mi è rimasta l’eco della portiera della macchina che si
chiude. Vedo delle aiuole poco lontano, e con tutto quel sole per una
frazione di secondo immagino di ascoltare le cicale. Magari il canto di
un uccellino. Invece no. Solo il silenzio. Gli sguardi su di me.
Manichini, statue. E quella mano che mi tiene stretta. Che si
impadronisce di me. L’inquietudine arriva così, mi sembra di sentire
addosso l’odore del pericolo. Io sento che sta per cominciare qualcosa
di pericoloso.

Valérie non sa di essere il primo prigioniero del G8. Valérie non sa
nulla. E’ un alieno, per tutti quegli agenti che l’attendevano. E che
ora la scrutano, l’annusano. Sospettosi, ancora prudenti ma avidi di
capire. Ci vorrebbe un bastone, per toccarla. Meglio una lunga canna.
Per irretirla, ed osservarne la reazione. Come si fa con un animale
sconosciuto. Con un nemico. I tre lunghi giorni di Bolzaneto stanno per
cominciare.

La poliziotta e il suo collega, quelli che mi avevano portato fino lì,
sembrano spariti. Forse la macchina è già andata via, io ormai sono
entrata in un’altra galassia. E c’è questo agente grande e grosso. Che
mi tiene forte. Che naturalmente non parla. Mi spinge in direzione di
un edificio di fronte a me. La sensazione di paura sembra salire, e
allora mi ripeto di stare calma. Adesso arriverà un ufficiale, recito
mentalmente. Mi chiederà i documenti e gli spiegherò tutto. Speriamo
sia una persona giovane, speriamo che capisca. Lo scoprirò subito, mi
dico, me ne accorgerò dalla sua espressione. Ma capirà, ne sono certa.
E fra dieci minuti sarò fuori di qui. Mezz’ora, al massimo.

***************

Ecco, è entrata. Ma nessuno le rivolge la parola. Nessuno rompe quel
silenzio assurdo. Valérie adesso è in cella, il volto contro il muro.

E allora aspettiamo, dico. Forse dovranno parlare con quelli che mi
hanno fermato, forse stanno cercando un interprete. O magari
l’ufficiale sta riposando. Con questo caldo… Sicuro, dev’essere così:
stava riposando. Ora hanno bussato alla sua stanza, lui si riveste e
scende. Scende fino alla cella, mi stringe la mano e mi chiede: cosa è
successo, madame?
Passano i minuti. Silenzio. Silenzio. Silenzio.

Sono così immersa nei miei pensieri. Così immersa, distante. Rifletto
su quanto sia grottesca questa situazione. Perché la ragione ancora
prevale. Sono così immersa – dico – che neppure mi accorgo che nella
cella adesso c’è un’altra persona. E’ una ragazza. Giovane, meno di
trent’anni. Bionda, forse tedesca. Mi dà le spalle. Sembra sussultare.
Ma cosa fa, piange? Piange, singhiozza. Provo a comunicare in inglese,
che ti è successo? Appoggia la fronte al muro, e piange.

Non fare così, non siamo nel Medioevo. Trema. Avanti, staccati da quel
muro, va tutto bene. Va tutto bene, non avere paura. No. No, mi
risponde. Non va tutto bene. Lasciami così, ti supplico. Mi hanno
ordinato di stare così. Faccia contro il muro, gambe divaricate, faccia
contro il muro. Ti hanno ordinato? E fai attenzione, bisbiglia: mettiti
così anche tu, altrimenti saranno guai. Vorrei rispondere a questa
ragazza, vorrei spiegarle che non c’è motivo di preoccuparsi.

Vorrei prometterle che non siamo in pericolo, vorrei abbracciarla. Ma
non muovo un muscolo. Ma non mi esce una sola parola di bocca. Anche
io, adesso, sto in silenzio. Paralizzata. Perché temo di aver compreso.
Perché adesso sono consapevole che la situazione è molto più grave di
quanto avessi immaginato. Perché qualche minuto dopo arriva e mi
prende, senza nessun motivo. Il terrore.

***********

Da dove dovrei cominciare? Dalla stretta al braccio, d’accordo. Perché
quello è l’inizio di tutto. Ma dopo, dico. Devo raccontare le
manganellate. Oppure gli schiaffi, i calci. L’umiliazione di spogliarsi
davanti a uomini e donne che ridono di te. Che ti guardano, che
scrutano ogni centimetro del tuo corpo, che ti penetrano con i loro
occhi. Tu sei nuda, e ti senti così fragile. Sola. E tutto intorno a te
è sporco, corrotto, nero. Appoggi i piedi sul pavimento e ti fa schifo,
ti spingono da una parte all’altra e ti fa schifo, ti ticono alza
braccia, e girati, e allarga le gambe, e accucciati e ti fa schifo.
Vorresti solo gettarti a terra, perdere conoscenza. Dormire. E scoprire
che era tutto un sogno. Forse potrei parlare di uno, che era finito lì
dentro solo per essere identificato. Voleva il suo nome, tutto qui.
L’hanno picchiato, l’hanno umiliato. E poi: scusa tanto, è tutto a
posto. Puoi andare. Quella è l’uscita. E lui è andato fuori, e non
sapeva che fare.

Era buio, non c’erano indicazioni. E’ tornato indietro. Gli hanno
detto: tranquillo, vai a destra e cammina per un paio di chilometri.
Troverai il centro. Naturalmente, era dall’altra parte che doveva
andare. O devo dire del sangue, di ragazzi grandi e grossi che piangono
e tremano, che obbediscono terrorizzati – come automi – ad ogni ordine.
Della notte passata abbracciati, a darci un po’ di coraggio. E quei
mostri che trascinano i loro caschi contro le sbarre delle celle, o
s’affacciano all’improvviso alla finestra e cominciano ad urlare. A
fare versi di animali. A grugnire come maiali. E a ridere.

***********

No, forse è meglio tornare ancora indietro. Scappare via con l’orologio
del tempo. Facciamo che siamo ancora all’inizio del pomeriggio di
venerdì. Che non mi hanno portato a Bolzaneto. Che sono in piazza
Dante, insieme ai francesi di Attac e a centinaia di persone che
protestano. Davanti a noi, quelle stupide grate.

L’obiettivo lo sapete. Volevamo ritrovarci, e dire che un altro mondo è
possibile. Volevamo entrare, oltre la Zona Rossa, volevamo spiegare a
tutti i politici che non è vero quello che dicono. Non è vero che non
ci sono alternative. Perché loro si giustificano così: purtroppo non
possiamo fare altro, amici, compagni, sarebbe bello cambiare – siamo
tutti d’accordo, miei cari: chi non vorrebbe un mondo migliore – ma
disgraziatamente non ci sono alternative. Invece no.

Si può cambiare, eccome. E loro lo sanno benissimo. Dunque, volevamo
entrare. Abbiamo cominciato a spingere, a spingere. Come è successo che
sono stata la prima? Beh, è abbastanza semplice da raccontare. Avete
presente un barattolo di quelli sotto vuoto? Marmellata, verdure
sott’olio, conserva di pomodoro.

Fa lo stesso. Allora: c’è questo barattolo, e naturalmente non si apre.
Chiami tuo marito, che prova a svitarlo. Non ce la fa, s’arrabbia.
Chiede uno straccio da avvolgere, perché scivola. Ci riprova.
Bestemmia. Niente da fare. Arriva un altro uomo. Il nonno. Svita,
svita. Niente. Ma dove ce l’hai la forza, ma lascia fare a me, ma
passami questo barattolo. Arriva il figlio maggiore, il fratello.
Insomma. Uomini, uomini, uomini. Quando il più intelligente di loro –
sconfitto, esasperato – propone di prendere le pinze o peggio ancora un
martello, sai che tocca a te. Che ci devi riprovare tu. E il barattolo
– tlac! – magicamente si apre. Bastava ancora una piccola pressione.
Ecco, quel pomeriggio è andata così. Che hanno spinto in quattrocento
per più di un’ora. E ad un certo mi sono trovata lì, davanti a tutti.
Ho appoggiato le mani e la grata di è aperta. Tlac. Come un barattolo
di marmellata.

*************

A Bolzaneto sono arrivata venerdì pomeriggio. Me ne sono andata
domenica notte. Mi hanno fatto male. Male dentro. E perché? Perché
avevo fatto un passo in avanti, a braccia alzate. Ho visto un ragazzo
per terra in un corridoio. Privo di conoscenza. Era a faccia in giù, in
una posizione così innaturale – come disarticolato – che ho pensato:
questo è ubriaco fradicio. Lo so che è una sciocchezza, però ho pensato
che fosse sbronzo. E poi ho scorto il sangue che gli usciva dalle
orecchie. Fuori dalla cella ne ho visto pestare uno di brutto. Pugni,
calci, bastonate.

Sembrava un fantoccio, ad un certo punto ha smesso persino di provare a
ripararsi dai colpi con le braccia. Uno dei poliziotti ha ‘sentitò che
qualcuno li stava osservando. Ha alzato lo sguardo, ha incrociato il
mio. E’ entrato in cella come una furia, mi ha preso per il collo, mi
ha sbattutto con la faccia al muro. ‘Ti ho detto che devi stare
ferma!’, ha ringhiato. Ho pianto. Ho pianto perché avevo vergogna di me
stessa. Perché quando sono entrata in quella prigione ho guardato con
stupore quella ragazza che mi diceva di stare zitta e buona. L’ho
giudicata. Qui non siamo nel Medioevo, tu sei un essere umano, dov’è la
tua dignità? Ma mezz’ora più tardi ero come lei. Stavo zitta, e pensavo
solo a sopravvivere. E questo è il male più grande che mi hanno fatto,
perché quel rimorso me lo porto dentro. Ce lo portiamo dentro tutti.

************

Dove ero rimasta? La griglia che si apre di mezzo metro. Giusto lo
spazio per infilarmi. Diciamo che è stato come essere a teatro. Le
tende che si aprono, il palcoscenico. S’accendono le luci. Tutti hanno
fatto un passo indietro, ma qualcuno doveva entrare in scena. E’
toccato a me. Ho pensato che avevamo vinto. Che bastava fare ancora un
piccolo passo per smascherare questa parodia. Ho capito che era
l’istante da vivere. E’ stato come quando vedi dei bambini che
attraversano la strada. E tu fai un passo in avanti, istintivamente.

Ero a fianco di Joseph Bové, dietro di me c’era una delle madri di
Plaza de Mayo. Ho fatto un passo ed ero felice. Nell’altro mondo. Nella
Zona Rossa. Non so quanto tempo sia passato. Qualche secondo, credo.
Sono arrivati degli uomini in divisa, con i caschi e le maschere
anti-gas. Mi hanno portato lontano, io ho alzato le braccia perché
tutti mi vedessero. Perché tutti mi seguissero. E’ fatta, mi sono
detta. Adesso anche gli altri entreranno da nuovi varchi. Adesso gli
abbiamo dimostrato come erano ridicoli, con queste barriere, con le
loro assurde gabbie. Adesso ci riceveranno i rappresentanti degli Otto.
Parleremo, parleremo, parleremo. Capiranno l’assurdità di questo
isolamento. Adesso succederà tutto questo. Invece no.

E’ alta, sottile, ha modi gentili e pacati. Valérie avuto un’infanzia
difficile, dice. Oggi ha quarant’anni, tre figli. Vive non lontano da
Avignone, fa la giornalista. Nella sua famiglia ci sono stati molti
poliziotti, conosce bene i meccanismi di chi veste la divisa.

Me ne ricordo uno, a Bolzaneto. Credo sia quello che ha avuto la
condanna più pesante. Aveva una faccia da brav’uomo. Gli occhi chiari,
lo sguardo fermo. Robusto, calvo. Sapeva un po’ di francese. Uno con
cui si potrebbe parlare a lungo. Ma lontano da quella caserma. Là
dentro mi ha preso il passaporto, lo ha sfogliato. Mi ha mostrato le
fotografie dei bambini. ‘Li vuoi davvero rivedere? Allora firma questo
verbale.

Altrimenti gli puoi dire addio’. Così mi ha detto, quel brav’uomo.
Voleva farcela pagare, ecco. Non mi chiedete perché. Voleva punirci.
Lui, gli altri. Dicevano: i ‘rossì li trattiamo così, in Italia.
Chiedevi un avvocato e si mettevano a ridere. ‘Devi firmare’, mi
diceva. Con quegli occhi dolci. Quel sorriso paterno.

Non lo sapevo di essere la sola, dentro la Zona Rossa. Non lo sapevo
che avevano subito chiuso il varco, che li avevano ricacciati indietro.
Non lo sapevo che mi avrebbero portato a Bolzaneto. Non lo sapevo ed
ero tranquilla. Anche se mi guardavano male, anche se mi spintonavano
lontano da lì. Mi hanno consegnato a degli agenti in borghese, poi è
arrivata quella strana macchina. E la poliziotta. Che mi ha tirato un
bel pugno in bocca, senza motivo. Mi hanno legato le mani dietro la
schiena, e sono finita in macchina, Una strana vettura, senza sedili,
con dei vetri scuri. Avevo la sensazione di soffocare, ma un secondo
agente, quello che si è messo al volante, mi ha fatto segno che sul
pavimento c’erano dei buchi per l’aria. Abbiamo attraversato la città,
ho scorto il centro storico e il porto di Genova. Mi sono commossa, mi
è sembrata una città bellissima e ho pensato come sarebbe stato bello
venirci per un gita. Forse era esattamente questo, che i poliziotti
avrebbero voluto dirmi: qui non ci dovevi venire, per manifestare. Sei
venuto, e ora ti meriti tutto ciò. La prossima volta vieni per visitare
la città, sarà meglio.
(13 settembre 2008)

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