La prima crisi veramente globale?

C’e’ grossa crisi…

La crisi finanziaria con epicentro negli States procede per ondate
successive che ne approfondiscono e ampliano la portata. Crisi dei
subprime, poi restrizione del credito tra banche, a seguire caduta
generalizzata dei prezzi immobiliari (prima volta dalla II guerra
mondiale) con forti perdite nei bilanci delle istituzioni finanziarie
e… probabilmente recessione reale. Mozzafiato gli interventi statali
diretti e i salvataggi sponsorizzati nella patria del “liberismo”: dopo
la statalizzazione di Fannie e Freddie,
il salvataggio della Merryl Linch da parte di Bank of America e quello
della Aig da parte della Federal Reserve, infine il fallimento di
Washington Mutual, la più grande cassa di risparmio statunitense,
acquisita poi da JP Morgan e l’assorbimento di Wachovia da parte di
Citigroup. Ma la carta straccia è anche, e pesantemente, nei bilanci
delle banche europee: di qui la prima tranche, in
questi giorni, di nazionalizzazioni e salvataggi dall’Inghilterra alla
Germania passando per Bruxelles. “E’ solo l’inizio – afferma un analista londinese – vedremo banche nazionalizzate, assorbite da altri gruppi e per qualcuna ci sarà anche il default”.

Le misure una tantum fin qui usate per correre in soccorso degli istituti finanziari però non bastano più. Così, il Tesoro Usa ha tentato il colpaccio con un piano complessivo da 700 miliardi di dollari
(pari più o meno al Pnl di Taiwan, ventunesima economia mondiale). Ma
nonostante l’allarme rosso delle borse, le rassicurazioni dei leader
del Congresso nonostante i forti malumori dei peones, l’intervento
diretto di Bush con un appello alla nazione, l’avallo dei due candidati
presidenziali – il piano per ora non è passato! A dimostrazione che la crisi inizia ad avere ripercussioni anche politiche.

Il Piano Paulson
_ Si tratterebbe (condizionale
d’obbligo) di un maxi-fondo pubblico che assorbendo i crediti “tossici”
inesigibili degli istituti di credito, punta a stoppare la discesa dei
prezzi e a sbloccare l’arresto del credito (credit crunch) che si sta
trasferendo all’economia reale. E’ un piano che salverebbe,
sistematicamente, le società responsabili del disastro finanziario
senza offrire nulla alla gente comune oberata di debiti (dai mutui alle
carte di credito). I lobbisti finanziari, aiutati dalle manovre dei
repubblicani, avevano ottenuto che il salvagente pubblico valesse per ogni
tipo di credito compresi quelli detenuti dai fondi pensione e
speculativi, i derivati, ecc.! L’intenzione è di nazionalizzare carta
straccia a spese del “contribuente” senza neanche uno straccio di
interventismo a favore di Mean Street (l’uomo della strada). Non era
infatti passata la richiesta democratica di misure legali minime a
favore delle famiglie espropriate della prima casa (inoltre i
repubblicani avevano ottenuto di eliminare ogni riferimento a fondi per
l’edilizia popolare) mentre i vincoli posti agli stipendi dei manager erano cosmetici.
Del resto Paulson, che aveva preparato un piano di tre paginette con
ancora più discrezionalità per il Tesoro, era stato chiaro: “La
protezione fondamentale del contribuente la darà la stabilità del
mercato che si garantisce in questo modo”. Il pubblico però aveva da
subito reagito male al ricatto posto da Bush su un piano che salva solo
i ricchi. Così, nonostante l’assegno in bianco iniziale fosse divenuto
un corposo progetto di legge, alla Camera hanno per ora votato contro
un buon numero sia di democratici che di repubblicani. “Per i primi, il
piano era troppo sbilanciato verso le “major ” di Wall Street. Per i
secondi, il piano, basato sulle finanze pubbliche, era in odore di
“socialismo”, commenta rainews24. Wall Street risponde in caduta libera.
 

Basterebbe?_
Il Piano risulta per ora congelato. Ma fin da subito si era posta una
domanda: è sufficiente? Equali le conseguenze? Un primo problema è
trovare tutti quei soldi: il debito pubblico complessivo
salirebbe ulteriormente anche rispetto all’ancora corposo Pil
statunitense (il deficit statale federale sarà quest’anno, con tutti i
salvataggi operati, al 10% del Pil a un livello visto solo con la II
guerra mondiale) mentre quello complessivo è già a cifre stratosferiche. Sarà necessario finanziarlo con crediti da fuori (nessun politico per ora parla di aumentare le tasse) appesantendo il debito estero.
“Qualcuno pensa anche che l’onere di riparazione di un sistema
finanziario disastrato potrebbe mettere a serio rischio lo status del dollaro come moneta di riserva mondiale”, scrive l’Economist.

Inoltre, i settori a rischio non sono oramai solo più quelli legati ai mutui subprime ma – ancora l’Economist – l’insieme
dell’industria finanziaria: “lo stesso fenomeno che osserviamo con le
case lo stiamo vedendo nei prestiti per l’acquisto auto, le carte di
credito e le borse di studio”. In effetti, è oramai in moto una
dinamica che conduce tutti gli istituti finanziari a vendere per
ridurre l’indebitamento (deleveraging: ridurre il rapporto pazzesco tra
titoli e assets reali) spingendo così ancor più in basso il valore dei
beni in una spirale difficilmente arrestabile. Potrebbe quindi già
essere troppo tardi per evitare conseguenze più pesanti.


Il quesito di fondo_
E’ quello che inizia a farsi strada: questo piano o uno simile potrà essere all’immediato necessario, ma sarà davvero efficace?
Su questo liberisti del Financial Times (come il guru Martin Wolf ) e
dell’Economist così come liberal democratici del New York Times (come
Paul Krugman) sono in fondo d’accordo nelle critiche: il Tesoro e la
Fed stanno affrontando la crisi come se si trattasse di un problema di liquidità
da immettere nel circuito per arrestare la spirale al ribasso dei
prezzi, ricreare fiducia e poi rivendere i titoli acquistati in un
mercato stabilizzato. Ma il problema è  a questo punto sempre più di insolvenza di quel “sistema bancario ombra” fatto di prodotti finanziari derivati figlio della deregulation e delle bolle speculative degli ultimi decenni (si parla di cifre astronomiche
pari o superiori al prodotto lordo mondiale). “Quando lo stock di
debito lordo è enorme e le condizioni economiche difficili, c’è alta
probabilità di numerose bancarotte. La gente teme l’insolvenza di
massa, i prestatori smettono di dare in prestito e gli indebitati di
spendere. Il risultato può essere la deflazione da debito”. Il mercato interbancario già lo segnala col rialzo dei tassi, il mercato monetario è sotto tensione. Tutto ciò non si risolve con iniezioni continue di liquidità ma ricapitalizzando il sistema, come propone anche il direttore del Fmi Strauss-Kahn: “Al cuore del problema c’è il fatto che il sistema finanziario ha troppo poco capitale”
per reimmetterlo nel circuito reale traendone profitto. Già ma
ricapitalizzare significa innanzitutto raccogliere quote enormi: da
chi, a quali condizioni (si accetteranno i cinesi nei consigli di
amministrazione?), con quale prospettiva? Significa comunque operare un
trasferimento colossale di ricchezza che il Fmi e Wall
Street hanno potuto imporre nei decenni passati nel Sud del mondo ma
difficilmente ora hanno il potere di riproporre in
quelle forme alla popolazione in Occidente e all’Asia. Significa,
inoltre, ripristinare le basi complessive del ciclo del valore e creare
nuove condizioni della domanda globale per rimettere in moto
l’accumulazione. Insomma, l’impressione che si trae dal dibattito negli
States, al momento, è che non si coglie la profondità della crisi di un
intero modello di crescita drogata dal debito quasi si potesse, dopo la
tempesta, riprendere tutto tranquillamente come prima. Mentre il
modello americano ha sempre meno appeal, mancano idee propulsive come
anche il confronto Obama-McCain
  sta evidenziando. Chi può permettersi di parlare esplicitamente di
declino della potenza statunitense senza essere punito dagli elettori?
L’obbligo tutto americano del “pensare positivo” – fa notare
lucidamente la vetero-cons Barbara Spinelli – impedisce di guardare con coraggio nel baratro che si sta aprendo.

L’equazione globale di potenza_ La crisi in corso è dunque strutturale
non solo perché ha colpito il centro del sistema mondiale ma anche
perché sta investendo, con conseguenze ancora incerte, il ciclo
mondiale di riproduzione del valore degli ultimi trent’anni e dunque
l’equilibrio globale di potenza che su di esso si è costruito. In
questo siamo veramente all’(inizio della) fine di un’era.
La fuoriuscita dalla crisi economica degli anni Settanta e la risposta
capitalistica al formidabile ciclo di lotte dell’operaio massa e dei
popoli coloured si erano concretizzati dagli anni Ottanta in
poi in una ristrutturazione del mercato mondiale: Dal rapprochement tra
Usa e Cina, al corso denghista del “socialismo di mercato”, fino alla
globalizzazione neoliberista, era sembrato che gli Usa potessero
svolgere il ruolo di egemone fornitore della stabilità sistemica, a
maggior ragione dopo il crollo dell’Urss e lo stabilirsi del “momento
unipolare”. In realtà, questo corso ha via via mostrato la sua
fragilità dimostrandosi incapace di replicare i successi del ciclo
fordista precedente. Da un lato ha infatti accentuato la
finanziarizzazione rapace dell’economia Usa e gli squilibri globali sintetizzati nel doppio deficit commerciale e dei pagamenti; dall’altro ha permesso il decollo e l’affermazione della Cina
come nuovo “opificio del mondo” ma legandola a doppio filo al mercato
interno e al finanziamento, con i propri surplus commerciali,
dell’indebitamento crescente degli Stati Uniti. I nodi di quella che
fin qui è stata la tenuta di Chimerica (come la chiama lo storico di Harvard Niall Ferguson ) e del mercato mondiale iniziano però a venire al pettine.
Sia sul versante del contratto sociale tra finanza e
cittadino-consumatore negli Usa (ma sempre più in tutto l’Occidente)
che ha sostituito con la privatizzazione individualistica del welfare il vecchio compromesso keynesiano-fordista facendo della domanda da indebitamento crescente della gente comune (debt peonage)
la base sempre più ristretta della piramide finanziaria (e che ora
rischia di frantumarsi). Sia per il rischio di trascinare, o comunque
influenzare pesantemente, l’intero sviluppo asiatico nei vortici della
crisi alla faccia dei teorici del decoupling crescita asiatica/crisi Usa. Sia, infine, per la crisi irreversibile del Washington Consensus e della forma
neoliberista della globalizzazione (che non vuol dire affatto
possibilità, dato l’intreccio globale della produzione e della finanza,
di tornare indietro a uno sviluppo incentrato e diretto dallo
stato-nazione!).

Novità e continuità
_ La novità sta dunque nell’incrinarsi evidente del controllo Usa sul ciclo di riproduzione del capitale globale, in particolare di fronte all’emergere dell’Asia.
La capacità di Washington di risucchiare -via predominio del dollaro e
della finanza oltreché via guerra- il valore accumulato dai centri
capitalistici emergenti nelle ex-periferie, principalmente in Asia
Orientale, garantendo al contempo la stabilità del sistema è
palesemente in difficoltà. L’esperienza della crisi asiatica del 1997-8
ha rappresentato per quei paesi una soglia cruciale palesando
l’arroganza di Usa e Fmi a fronte dell’incapacità di porre ordine negli
squilibri globali, anzi usandoli per accaparrarsi i pezzi migliori
delle economie asiatiche. A dieci anni dalla crisi gli effetti della
reazione asiatica sono evidentissimi: fine dell’indebitamento col Fmi
(ridotto oramai a istituzione fantasma), ripresa economica incentrata
sulla crescita cinese, rapporti inter-asiatici meno asimmetrici di
quelli con l’Occidente, e su tutto primi passi verso la costruzione di
un mercato asiatico più integrato facente perno sulla
Cina. E’ su questo complesso emergente, oltreché su un America Latina
che cerca di integrarsi e su una Russia in ripresa (ma addirittura le
petrolmonarchie palesano qualche velleità autonoma), che gli States non riescono più a scaricare la crisi come prima. Al tempo stesso, la continuità nell’attuale fase sta in una struttura della divisione internazionale del lavoro che resta incentrata sullo stretto legame Usa-Cina.
Un’equazione destinata nel (medio)-lungo periodo a dissolversi, ma che
a breve resta una necessità anche per la dirigenza cinese. Il paradosso
dell’attuale situazione sta nel fatto che il rafforzamento cinese nei
confronti di Washington è condizionato dalla prosecuzione della cooperazione economica con gli Stati Uniti.
Una cooperazione a cui è costretto ancor più l’establishment
statunitense con la crisi in corso e il bisogno urgente di fondi (due
miliardi di $ al giorno; la Cina da sola sta prestando agli Usa per il
2008 l’equivalente di due volte e mezzo il Piano Marshall per l’Europa
del 1947). In questo quadro, tendenzialmente sempre più incerto – c’è
chi su Foreign Affairs parla oramai di fase a-polare
– gli altri attori di media potenza della politica globale si fanno
avanti giocando, come la Russia, sulle debolezze statunitensi senza al
momento potere né volere intraprendere un corso di piena e dispiegata
rottura. La loro azione, di per sé non centrale, potrebbe però
precipitare situazioni di crisi (v. Georgia) proprio in relazione alla
fragilità crescente degli equilibri globali.

Nuova regolazione?_  Mentre le teste d’uovo del Council on Foreign Relations statunitense iniziano (ora!) a ragionare a voce alta sulla vulnerabilità strategica
dovuta alla dipendenza dai finanziamenti di paesi “non alleati” e dei
fondi sovrani e consigliano di ridurla (ma come?) – il dibattito è
acceso nei circoli economici sulle modalità di una nuova regolazione
finanziaria. Su un piano tecnico questa è già iniziata con le misure
della Fed e del Tesoro americani (maggiori controlli, fine della banca
d’investimento, ecc.) e verrà quasi sicuramente confermata se non
ampliata alla prossima riunione del G-7, al di là dei malumori europei.
Ma la questione è più generale e verte sia sulla governance globale ventura sia sulle condizioni di un nuovo ciclo economico. 1.
Sul primo punto, finora erano andate per la maggiore le tesi, Greenspan
in testa, di chi negava che il doppio deficit fosse un problema per gli
States: “i deficit non contano” (Dick Cheney)! Questo sia perché non
sarebbe in vista un sostituto globale del dollaro sia per la forza
militare Usa che sembrava impareggiabile. Oggi invece prendono forza i “preoccupati”:
la debolezza finanziaria è un problema serio cui ovviare mettendo
ordine in casa (sacrifici!) e approntando una nuova architettura
internazionale che renda conto delle nuove realtà emergenti. Sempre
sulle pagine di Foreign Affairs, la rivista ufficiale del Dipartimento
di Stato, Fred Bergsten del Peterson Institute propone un G-2 informale
con la Cina affiancato a un accordo (un “Asian Plaza”) di rivalutazione
delle monete asiatiche. Attenzione a non equivocare sulle intenzioni.
L’obiettivo è qui, preso atto dell’inevitabilità oggi di un asse
economico con Pechino, di stringere ancor più Pechino in una rete di
vincoli e ricatti atti a evitare che l’economia
cinese possa puntare autonomamente sul proprio mercato interno e quella
asiatica possa centralizzarsi intorno ad essa distruggendo
l’“indispensabilità” statunitense. Il punto però è che una Cina forte
dei suoi successi continuerà a cooperare ma ha già iniziato a
riscrivere a suo modo le regole del gioco del sistema! 2.
Ma il problema di una possibile nuova regolazione rimanda al nodo ben
più complesso di se e come è possibile rilanciare il capitalismo, a
scala Usa e globale, riequilibrando il rapporto finanza/produzione,
dove la prima sta fagocitando la seconda in un intreccio
indistinguibile di profitto e rendita (attenzione: nessuna litania qui
sulla speculazione “cattiva” contro la produzione “buona”!). Questo
intreccio spreme il lavoro ai limiti dell’immaginabile ma in quantità
pur sempre insufficiente a valorizzare la pletora di capitale
“fittizio” che circola sui mercati. I margini ampliabili non a piacere
della giornata lavorativa globale -come tempo di vita e come resistenza
del lavoro vivo- restano infatti il limite (storicamente) assoluto per
il capitale. Un suo “ringiovanimento” via distruzione del capitale
fittizio – non surrogabile dalla mera svalutazione dei corsi finanziari
oggi in atto – è stato possibile nel passato solo grazie alle guerre
mondiali distruttrici di lavoro vivo e morto e comunque in una fase in
cui ancora non tutto il lavoro e la vita erano sussunte
al capitale. Oggi la guerra generale non sembra una “soluzione” a
portata di mano per il sistema, mentre la tendenziale mercificazione
della totalità delle relazioni sociali rende paradossalmente più
difficile, ma per ciò stesso più imperiosa, la “recinzione” di nuovi
terreni di caccia per il valore. C’è chi – come Arrighi
– pensa o propone che la Cina possa rappresentare una via d’uscita
all’impasse grazie a un modello differente di accumulazione, meno
sperequato all’interno e meno asimmetrico (cioè non imperialista) nei
rapporti con l’estero. La questione è complessa e, si sia d’accordo o
meno, va discussa per le implicazioni possibili di una inedita “socialdemocrazia in salsa cinese
sulla dinamica degli antagonismi di classe (a partire dal proletariato
di lì). Per intanto sta di fatto che l’establishment cinese finora non
si è contrapposto affatto al modello “anglo-sassone” a misura che se
anche i profitti sono essenzialmente industriali e non (ancora)
finanziari, però gran parte di essi viene messa a disposizione
del finanziamento del debito statunitense ad alimentare un circuito
globale da cui la borghesia cinese trae valore e legittimazione. Sembra
proprio che sia definitivamente esaurita la fase storica in cui
“dall’alto” poteva venire una risposta, anche solo socialdemocratica o
real-socialista, alla questione di un modello economico alternativo.
E’ altrove che è più opportuno guardare per abbozzare una risposta a
cosa possa oggi significare un’economia altra possibile, come
produzione e riproduzione dei commons a scala finalmente globale. Il
movimento no global, nella sua dinamica profonda, ha iniziato a porre
la questione senza poterla però radicare nel profondo della società (e,
rispetto all’Asia, dovendosi fermare a Bombay) . La crisi finanziaria,
se dovesse approfondirsi, dislocherà quella domanda immettendola di
forza nella vita pratica di tutti
e preparando il dispiegarsi di conflitti sul terreno del debito, della
rendita nelle sue molteplici forme, della finanziarizzazione come
sintesi capitalistica dell’espropriazione della vita nella sussunzione reale.


__________________

Sull’evoluzione storica postbellica del debito estero Usa un utile articolo del Sole24ore che illustra come si sia arrivati a vivere abbondantemente sopra le proprie possibilità.

Qui il commento di Joseph Halevi sulla recente pubblicazione del CFR di Washington sulla vulnerabilità strategica rispetto ai finanziamenti esteri.

Qui, per un primo approccio, la recensione di Sandro Mezzadra al libro di Giovanni Arrighi “Adam

Smith a Pechino”.


 

This entry was posted in Politica. Bookmark the permalink.

2 Responses to La prima crisi veramente globale?

  1. stobados says:

    Le guerre sono state fatte per crisi molto piu’ leggere gia’ prima dell’11settembre si parlava di recessione, poi e’ stato attaccato l’afanistan(come lo pronunciano i politici al governo). comunque non bisogna collegare la seconda guerra mondiale solo alla crisi del ’29, sarebbe riduttivo. La seconda guerra mondiale ha avuto molte cause, una e’ stata la prima guerra mondiale e il trattamento riservato alla germania.
    Gia’ da un po’ di tempo spirano nuovi venti di guerra, se per qualche mese riescono a farci dimenticare la crisi (nascondendola…) potrebbe arrivare un nuovo attacco, magari all’iran o alla siria.

  2. daniele says:

    Lo sai l’ultima volta che c’è stata una crisi così cos’è successo?

    tipo la seconda guerra mondiale…

Comments are closed.